Passiamo ora al dovere di Povertà
Continuiamo a leggere la lettera circolare che Madre Chiara Ricci indirizza alle sue amate figlie e vediamo insieme il secondo dovere: la povertà.
Beh, è abbastanza ovvio che la fondatrice di un ordine francescano richiami al dovere della povertà. Dopotutto anche lei stessa ricorda come questa virtù sia propria del carisma di san Francesco che la chiamò sua sposa.
Ecco, forse il termine virtù, associato a povertà, ci destabilizza un po’; soprattutto mette in crisi una parte di noi. Perché dovremmo chiamare virtù una cosa brutta? La povertà non è una cosa né piacevole, né bella. Gli stessi telegiornali ce lo ricordano quando riportano i dati relativi a quanti, nel nostro Paese o nel mondo, vivono “sotto la soglia di povertà”. Quando sentiamo la parola povertà la prima immagine che ci viene in mente, probabilmente, è una persona che vive in strada e chiede l’elemosina o un bambino africano denutrito: situazioni che sicuramente non vorremmo trovarci a vivere. Oggi poi ci sono tante povertà che fanno paura: non solo quella economica, ma quella digitale, quella sanitaria. La povertà indica sempre una mancanza, un handicap.
Cosa posso quindi guadagnare dalla povertà?
Madre Chiara non è un’idealista e sa bene quanto la povertà possa essere faticosa: lei stessa infatti la chiama “questa tanto disprezzata virtù”. È come se dicesse: “care figlie, so bene quanto la povertà possa apparire antipatica, ma – credetemi – essa è una virtù”. E come una madre le prende per mano mostrando loro piccoli passi possibili per abbracciare la povertà nel quotidiano: dà consigli riguardo ai vestiti, alle stanze, alle scarpe, al bere e al mangiare; mostra innanzitutto, con cuore di madre, che sposare la povertà è possibile. Questo forse sarebbe già abbastanza ma madre Chiara non si accontenta di un’adesione superficiale: vuole che le sue figlie, grazie alla povertà, facciano un percorso.
… questo buon Dio fin ora non ci ha riguardate con occhio di misericordia, non ci ha sempre provviste?
Solo chi è povero può davvero rendersi conto che non gli manca nulla e far fiorire nel suo cuore la gratitudine. La povertà è la virtù che sa rendere il cuore grato, riconoscente per tutto ciò che concerne i nostri bisogni materiali (che sono fondamentali tanto quanto quelli spirituali e affettivi).
La povertà quindi da dovere (parola sempre un po’ indigesta) diventa strumento che – paradossalmente – rende più ricca la nostra vita perché ci aiuta a gustare tutto il bene che Dio ha per noi a partire dalle cose più piccole. La povertà ci aiuta a fare spazio intorno e dentro di noi per renderci capaci di ascoltare, per non farci assumere atteggiamenti di superiorità che ci allontanano da Dio e dalle persone intorno a noi.
Ma come si vive la povertà? Noi forse non ci sentiamo chiamati a spogliarci come san Francesco di tutti i nostri beni. E va bene così. Perché la povertà sta innanzitutto nel nostro modo di rapportarci alle cose che possediamo, al modo in cui gestiamo ciò che abbiamo. Povertà è essere capaci di condividere con il desiderio di costruire un angolo di Regno di Dio sulla Terra, senza chiudere il nostro cuore nell’egoismo, capaci di ascoltare i bisogni di quanti camminano al nostro fianco certi che nulla di ciò che è necessario ci mancherà.
In questo tempo di Avvento, rivolgiamo lo sguardo al Presepe. Nella nostra tradizione ogni statuina porta tra le mani un dono per Gesù bambino: sono persone povere, che hanno ricevuto la notizia di una donna che (lontana da casa) ha partorito in una stalla; conoscono la povertà e subito avranno pensato a cosa – delle proprie poche cose – potevano condividere con questa famiglia nel bisogno. Forse saranno rimasti anche loro sorpresi rendendosi conto che, quella notte, il vero dono lo avevano ricevuto loro.