Spiritualità di Madre Chiara

Dio sa quello che fa!

È certamente questa l’espressione più conosciuta di Madre Chiara Ricci, fondatrice delle Suore Francescane Angeline, che in questi anni ha suscitato, nei cuori di tanti giovani, il desiderio di conoscere meglio la sua spiritualità francescana, così ricca di fiducia in Dio.

Per molti di noi, infatti, Madre Chiara è un esempio luminoso di vita cristiana e religiosa, che intercede presso il Padre, insegnandoci a confidare sempre nella sua paterna bontà.

Certi che la sua esperienza abbia ancora tanto da dire alle nostre giovani vite, vogliamo soffermarci su alcuni aspetti della sua vita. Partiremo dalla Lettera Circolare che lei stessa scrive a tutte le sue figlie, per poter così cogliere il dono che ancora oggi è per noi giovani.

 


Maria Regina degli Angeli

Agosto è un mese importante per coloro che seguono il carisma di san Francesco perché il 2 agosto si celebra la festa del Perdono di Assisi. Ma per le suore Francescane Angeline c’è un motivo in più di festa: il 2 agosto è anche la loro festa titolare.

La norma di vita dell’istituto (cioè quel documento che raccoglie le principali norme spirituali e giuridiche) approvata dal vescovo di Alessandria nel 1889 recita, infatti, che la nascente famiglia aggiunge il nome di Angeline, oltre che per evitare la confusione con altri istituti francescani,

sia per amore di Santa Maria degli Angeli, cui è dedicata la cappella della prima casa di Castelspina, sia perché si propone di coltivare una speciale devozione verso i santi Angeli Custodi.

Fu proprio madre Chiara a volere la custodia e la protezione della beata Vergine Maria per il suo istituto e a scegliere, tra tutti gli appellativi e i titoli a lei riservati, quello di beata Vergine Maria degli Angeli della Porziuncola, tanto da dedicarle la cappella della casa di Castelspina.

Ma come mai proprio la Madonna degli Angeli?

Una lettura superficiale potrebbe far pensare a una devozione nata negli anni vissuti a Rivalta Bormida, dove si trova una cappella dedicata a Maria Regina degli Angeli. Ma le scelte di madre Chiara non sono mai scontate tantomeno se hanno a che vedere con le sue figlie e sorelle.

Madre Chiara rivela, nella sua decisione di dedicare la sua famiglia religiosa alla Vergine degli Angeli, il suo profondo attaccamento alla spiritualità francescana e all’insegnamento di san Francesco. Le biografie e gli scritti che parlano di Francesco testimoniano infatti il suo attaccamento alla Porziuncola, in quanto luogo santo, abitazione di Cristo e della Vergine sua Madre. Egli stesso ne aveva infatti più volte sperimentata la presenza, rivolgendo a Dio la sua preghiera e ottenendo grazie. In questa chiesetta, Francesco affida a Maria l’inizio dell’Ordine dei Frati Minori e delle Clarisse in modo che apparisse chiaramente che era la Madre della Misericordia a partorire nella sua dimora l’uno e l’altro Ordine. La Porziuncola è il luogo dove si sperimenta l’intercessione della Vergine degli Angeli che ottiene a nostro favore il perdono dei peccati e l’abbondanza delle grazie; è il luogo dove si celebra la misericordia del Figlio e si cresce nel suo amore.

Madre Chiara ha sicuramente presente la grande devozione di san Francesco per Maria così come le è chiaro che i modelli della sequela sono due: Cristo e Maria; entrambi, con il loro sì, hanno portato a compimento il progetto di salvezza di Dio Padre: la riconciliazione del genere umano con Dio. Ella volle associare quindi a questo sì le sue figlie e sorelle, perché fossero nel mondo testimoni e strumenti di riconciliazione.

È proprio alla luce di quanto detto finora che la decisione di affidare e dedicare il novello istituto alla beata Vergine Maria degli Angeli della Porziuncola acquista un significato molto più profondo che segna la strada per quanti si avvicinano al carisma di madre Chiara Ricci. Non solo nel forte attaccamento alla spiritualità francescana ma soprattutto nell’evidenziare nella misericordia uno dei tratti più importanti del cammino di fede. Solo quando facciamo esperienza della misericordia di Dio nella nostra vita infatti possiamo comprendere cosa significhi essere figli amati di un unico Padre, sperimentarne la bellezza e diventare a nostra volta testimoni.

Maria ci insegna la strada della sequela e ci sostiene in questo cammino perché possiamo vivere pienamente la nostra vita, scoprendo il disegno di bene che Dio ha per noi.

L’autobiografia #2

Il mese scorso abbiamo letto insieme la prima parte dell’autobiografia di madre Chiara nella quale ella narra la sua infanzia e la sua giovinezza e abbiamo visto come, dopo le seconde nozze del padre, Caterina (che era il nome di madre Chiara) si vide costretta a rimanere in casa per aiutare nella gestione della famiglia. Di quegli anni faticosi sappiamo poco, ma possiamo essere certi che era forte in lei la domanda riguardo alla sua vocazione.

In questo tempo pregai molto il Signore perché mi facesse decidere nello stato che dovevo abbracciare giacché il mondo non mancava di lusingarmi perché non lo abbandonassi.

Vediamo in questa frase tutta la fatica del discernimento. Caterina era una giovane donna, appartenente a una ricca famiglia della città e ben inserita nella vita sociale: nel suo modo discreto di dire che il mondo la lusingava possiamo immaginare anche le attenzioni di altri giovani della sua età. Ma per lei “sistemarsi” non è solo una questione sociale o di autonomia dalla famiglia di origine: per lei è chiaro che la scelta che è chiamata a fare è una scelta in cui si gioca tutta la sua vita e il suo rapporto con Dio.

All’età di 28 anni ha l’occasione di seguire gli esercizi spirituali tenuti nella parrocchia di Sant’Andrea da un francescano, padre Basilio da Neirone. Ascoltando la sua predicazione, Caterina sente nascere forte in lei non solo il desiderio di consacrarsi, ma anche di seguire il carisma francescano. Decide dunque di confidarsi con padre Basilio che la indirizza verso le Terziarie Francescane di Nostra Signora del Monte di Genova.

Questa non è una decisione scontata: ai tempi le ragazze benestanti che decidevano di consacrarsi erano indirizzate verso ordini religiosi e istituti che potessero loro garantire una condizione adeguata al loro stato sociale di origine. Ma questo a Caterina non importa.

Amavo di essere povera per amor di Dio e, se mi avessero mandato, di andare anche volentieri alla questua.

Saranno in molti a cercare di convincerla a cambiare la sua scelta verso un istituto più adeguato: nella sua autobiografia madre Chiara cita il suo confessore, altri religiosi (probabilmente amici di famiglia), suo padre e suo fratello maggiore Agostino. Ma lei è irremovibile, certa del desiderio che sente nel cuore e alla fine riesce ad avere la meglio.

Il 19 marzo 1862, accompagnata da suo padre e da uno zio canonico, va a Genova per entrare nelle Terziarie Francescane del Monte.

Il convento si trovava in cima a una salita abbastanza ripida e faticosa ed è proprio qui che madre Chiara viene chiamata a confermare per l’ultima volta la sua scelta. Lo narra lei stessa, con ironia, nella sua autobiografia:

Ricordo che per istrada nel borgo di S. Fruttuoso incontrai due suore appunto di quelle che dovevano essere le mie sorelle e al vederle così macilente con un abito così meschino e rozzo mi sentii tentata di dire a mio padre che non volevo più andare a farmi monaca, ma tosto sentii una voce che parlandomi al cuore mi diceva che era quella una tentazione del Demonio per guadagnarmi al secolo; mi feci animo e non diedi alcun segno di quella impressione avuta nel veder le suore. Giunta finalmente alla porta del Conservatorio sebbene il cuore mi battesse pure mi sentii più calma e il Demonio forse era rimasto confuso in fondo alla salita.

Madre Chiara ricorda anche come la sera stessa il refettorio e il povero cibo le fecero effetto, ma tutto rimase nel sonno e al mattino mi sentii contenta di trovarmi in quel povero e santo luogo.

La scelta della povertà francescana è quindi una scelta consapevole che pone un forte stacco rispetto alla sua vita precedente nella quale gli agi e la ricchezza non le mancarono di certo. Colpisce quindi la sincerità e la sicurezza con cui madre Chiara decise di abbracciare questa scelta ed è forse proprio grazie a questa consapevolezza che ella farà di tutto per non venirne meno.

I mesi di postulato passano veloci: Caterina ha ormai 29 anni ed è una donna matura e intelligente in cui è chiaro e autentico il desiderio di consacrazione. Dopo soli 3 mesi le viene quindi proposto di entrare in noviziato e il 21 giugno 1863, festa di san Luigi, indossa l’abito francescano.

La sua autobiografia termina qui, nel ricordo gioioso del suo anno di noviziato:

Incominciai il mio noviziato, caro e benedetto anno! Non ne passai mai più uno eguale; le monache mi volevano bene.

L’autobiografia #1

Oltre alla lettera circolare, che abbiamo letto insieme, lo scritto più importante che ci ha lasciato madre Chiara è la sua autobiografia.

Si tratta in realtà di un testo piuttosto breve, scritto appunto da lei stessa, che narra della sua vita fino all’ingresso in noviziato. Madre Chiara la scrive nel dicembre 1898, a due anni dalla morte, in un momento particolarmente doloroso: solo un mese prima era stata deposta dall’incarico di Madre Generale e viveva probabilmente un periodo di particolare sofferenza, preoccupata per il futuro dell’Istituto da lei fondato, interrogandosi sulla sua missione e sul suo servizio alla Congregazione. Possiamo ipotizzare che sia stato il suo padre spirituale a invitarla a scrivere un racconto della sua vita.

Vediamo oggi insieme la prima parte, che copre la sua infanzia e giovinezza.

Castelspina, 8 dicembre 1898

Oggi otto Dicembre 1898 giorno dedicato a Maria Immacolata, intraprendo a scrivere queste memorie della vita, le più rilevanti che passai al secolo e in Religione.

Madre Chiara si trova a Castelspina, la casa dove ha fondato le Francescane Angeline, e inizia a scrivere la sua autobiografia il giorno dell’Immacolata. Forse è stata semplicemente una data causale, ma è facile pensare che abbia deciso di cominciare proprio quel giorno per una ragione: mettere sotto la protezione di Maria la sua narrazione, come aveva fatto quando aveva deciso di dedicare il novello Istituto alla Vergine degli Angeli.

Madre Chiara nasce a Savona il giorno 8 luglio 1834 ed è battezzata con il nome di Angela Caterina Maddalena Battistina Maria Albertina. Il nome usato in famiglia era Caterina, abbreviato in Nina. I primi paragrafi ci fanno immergere nella sua vita di bambina: una vita lieta e serena. Il padre, Giacomo Ricci, era proprietario di una fiorente impresa di spedizioni e la famiglia viveva un’esistenza agiata. Madre Chiara ricorda due episodi nella sua autobiografia che lasciano ben intendere le condizioni benestanti della famiglia che le permettevano di partecipare agli eventi più importanti della città: all’età di quattro anni (e per cinque volte di seguito) fu scelta per estrarre i numeri vincenti della lotteria cittadina e all’età di sei anni durante la visita del Re e della Regina portò ai reali una cartelletta con le poesie recitate in loro onore. Caterina cresce circondata dall’amore della sua famiglia, istruita nella fede, frequentando le migliori scuole di Savona.

Ma questa felicità non doveva durare a lungo: nel 1847 la mamma muore, lasciandola orfana a soli 13 anni. Caterina è costretta a lasciare la scuola e, in quanto sorella maggiore, a occuparsi della famiglia. Questo episodio lascerà un segno indelebile nella sua vita, tanto che a distanza di anni, nella sua autobiografia, ricorda con impressionante precisione la data della morte della madre.

Frequentai la scuola fino alla morte della mia povera mamma la quale avvenne il tre Dicembre 1847 lasciandomi orfana nell’età di anni 13 mesi cinque e giorni 25.

Tuttavia, pur profondamente provata dalla perdita, Caterina vive serenamente insieme al padre e alle sorelle e ai fratelli. Scrivendo infatti di quegli anni, li ricorderà come tranquilli.

Ma le sofferenze non erano finite.

Giunta all’età di ventun anni, il Signore nei suoi giusti e santi decreti volle amareggiarmi la vita disponendo che mio padre passasse a seconde nozze con una cugina prima di mia madre.

È un fulmine a ciel sereno, aggravato dal fatto che la seconda moglie ha solo un anno in più di lei. Per Caterina comincia un periodo difficile, durante il quale si vide costretta a rimandare ogni decisione sulla sua vita per aiutare la matrigna ad accudire i cinque figli nati uno dopo l’altro.

Madre Chiara non spende molte parole sugli anni in famiglia che seguono la morte della madre e il secondo matrimonio di suo padre: la prosa è sintetica e asciutta, lasciando trasparire tutto il dolore e la sofferenza provati. Eppure, se pensiamo alla sua vita da consacrata, non possiamo che vedere anche in questi anni i semi del suo carisma: un’attenzione all’educazione dei più giovani, una cura nel governo della casa, un forte senso di maternità speso sia nei confronti delle sue figlie spirituali che delle alunne dei vari istituti.

Spesso anche noi viviamo delle situazioni in cui la fatica e la sofferenza sembrano prendere il sopravvento, ma è proprio attraverso di esse che il Signore ci prepara al disegno che ha pensato per noi.

Le preghiere di Madre Chiara – La corona francescana

Il mese di maggio, nella tradizione della Chiesa, viene dedicato in modo particolare alla figura di Maria. Vogliamo quindi cogliere questa occasione per approfondire la conoscenza della corona francescana.

Molti di noi infatti avranno presente la corona appesa al cingolo delle suore francescane e dei frati, ma forse pochi ne conoscono la preghiera e la storia ad essa legate.

La corona francescana, anche nota come “Rosario delle sette beatitudini della Vergine Maria”, è una preghiera molto antica nata all’interno della spiritualità francescana. Proprio per questo motivo, anche madre Chiara la conosceva e la pregava e la raccomandò alle sue figlie nelle Costituzioni (cioè nel documento che racchiude le principali norme spirituali e giuridiche dell’istituto angelino) tra i vari “pii esercizi”.

Le origini di questa preghiera sono un intreccio di storia e leggenda. La tradizione lega la nascita di questa preghiera a un novizio francescano di nome Giacomo: fin da bambino Giacomo aveva l’abitudine di offrire ogni sera alla Vergine una corona di rose fatta da lui. Entrato a far parte dei frati Minori, non poté più continuare questa sua abitudine e ne fu molto rattristato. La Vergine allora, stando alla leggenda, gli sarebbe apparsa per consolarlo indicandogli un’altra offerta che egli avrebbe potuto donarle in cambio: pregare ogni giorno sette decine di Ave Maria intercalate dalla meditazione dei “sette misteri gaudiosi” che ella visse. La Vergine indicò i sette misteri nei seguenti episodi della sua vita: l’annuncio dell’angelo Gabriele; la visita ad Elisabetta; la nascita di Gesù a Betlemme; l’adorazione dei Magi; il ritrovamento di Gesù dodicenne tra i dottori del tempio; la risurrezione di Gesù; la sua gloriosa assunzione al cielo. La Madre santa terminò la sua richiesta al giovane novizio con questa promessa: “Se tu reciterai ogni giorno queste preghiere, ricordando questi sette gaudi, sii certo che m’intreccerai una corona di fiori immarcescibili, a me più gradita di qualunque altra!”. Giacomo iniziò dunque questa devozione e un giorno, mentre pregava, il suo superiore lo sorprese assorto in orazione nella sua cella, in compagnia di un angelo che infilava rose in un cordoncino intercalando ogni decina di queste con un candido giglio. Il maestro lo invitò a dare una spiegazione e, sentita la risposta, la raccontò agli altri frati e così si diffuse questa devozione in tutta la famiglia francescana. La pratica della corona fu approvata da diversi papi e alcuni di loro la arricchirono anche del dono dell’indulgenza.

La corona francescana è una preghiera molto semplice, è come un piccolo salterio che canta le gioie del cuore di Maria e mette sulle nostre labbra la lode a Dio per il dono che ci ha fatto in Lei, rendendola Madre di tutti noi. Non è una novità nella sua forma: riprende infatti lo schema classico del Rosario. È la preghiera dei semplici, è adatta a tutti e permette di contemplare la storia della salvezza del Nuovo Testamento attraverso la ripetizione ritmica della recita dell’Ave Maria e del Padre nostro.

Pur caratterizzata dalla sua fisionomia mariana, è in realtà una preghiera dal cuore cristologico, perché è un piccolo compendio di quanto Dio nostro Padre ha compiuto per mezzo del Figlio. In essa riecheggia la preghiera di Maria, il suo perenne Magnificat per l’opera dell’Incarnazione redentrice iniziata nel suo grembo verginale. Con la preghiera della corona il popolo cristiano si mette alla scuola di Maria, per lasciarsi introdurre alla contemplazione della bellezza del volto di Cristo e all’esperienza della profondità del suo amore. Mediante la meditazione dei diversi misteri il credente ricorda le meraviglie della salvezza e con lei esulta di gioia nella lode per la tenerezza con cui il Padre si prende cura di noi. “Fare memoria” di quanto il Signore ha operato per noi, con fede e con amore, significa riconoscere le orme dello Spirito di Dio negli avvenimenti della vita quotidiana di ciascuno, imitando la Vergine Madre. Maria ci conduce ad apprendere il segreto della gioia cristiana, ricordandoci che il cristianesimo è innanzitutto euanghelion (parola greca da cui deriva il termine “vangelo”), cioè ‘buona notizia’, che ha il suo centro, anzi il suo stesso contenuto, nella persona di Cristo, il Verbo fatto carne, unico Salvatore del mondo.

Come pregare la corona:

La recita della Corona Francescana comincia con l’invocazione: “O Dio, vieni a salvarmi”

Viene di seguito annunciato ogni singolo mistero che mette in risalto una delle gioie di Maria.

“Il gaudio di Maria…

  1. … nell’annuncio dell’angelo
  2. … nella visita a santa Elisabetta
  3. … nella nascita di Gesù
  4. … nell’adorazione dei Magi
  5. … nel ritrovamento di Gesù nel tempio
  6. … nella risurrezione di Gesù
  7. … nell’assunzione e incoronazione al cielo”

Segue per ogni mistero un Padre Nostro, 10 Ave Maria, un Gloria al Padre.

Dopo la settima decina si aggiungono 2 Ave Maria in modo da arrivare al numero di 72, numero corrispondente agli anni che secondo la tradizione la Vergine trascorse su questa terra. Si termina con la Salve Regina e un Padre Nostro, un’Ave Maria e un Gloria secondo le intenzioni del Papa.

La lettera circolare #7

Mie amate figlie, con i ginocchi piegati a terra, col Crocifisso in mano, con le lacrime agli occhi vi prego a tenere a memoria questi cinque doveri ed insieme ricordi che io vi do per adempirli, che sono: 1° Obbedienza, 2° Povertà, 3° Buon esempio, 4° Carità, 5° Distacco da tutto. Da noi vogliono e aspettano cose grandi, Dio dal cielo, il nostro S. P. Francesco dal Paradiso, i Vescovi dal trono, i Superiori nostri dall’Ordine, le famiglie, le popolazioni, tutti attendono.

Siamo giunti alla conclusione della lettera circolare. Dopo aver affidato e spiegato alle sue figlie i cinque doveri che abbiamo percorso insieme, madre Chiara giunge alla chiusura della sua lettera. A prima vista potrebbe sembrare una semplice sintesi di quanto detto prima, ma non è così: in queste brevi righe la prospettiva si apre e appare con semplicità e profondità il suo amore non solo di madre, ma anche di figlia.

È un passaggio forse non scontato: i doveri già non bastano? Dopotutto Obbedienza, Povertà, Buon esempio, Carità e Distacco dal mondo ci sembrano già più che sufficienti per una vita santa. Eppure, manca l’ultimo passo. Fondamentale. Dopo aver guidato le sue figlie indicando loro gli strumenti per vivere pienamente la loro vocazione, madre Chiara le consegna alla Chiesa e nella Chiesa. Subito infatti, dopo aver ripercorso i doveri che ha loro affidato, ricorda alle suore che questi si declinano nella loro relazione con Dio, con i santi, con i ministri e con i laici: in estrema sintesi, con la Chiesa celeste e terrena.

Voi siete, sorelle mie, le prime pietre di questo novello Istituto di Terziarie Francescane Angeline. Ringraziamo tutte il Signore che in così poco tempo si degnò farlo crescere e dilatare anche fuori Diocesi.

Madre Chiara è contenta che il giovane istituto delle suore francescane Angeline sia cresciuto in poco tempo anche fuori dalla diocesi in cui è nato. Ma quello che la guida non è l’orgoglio: nella crescita e nel fiorire ella vede una conferma della bontà di questa nuova proposta di vita, il sigillo della volontà di Dio. Come san Francesco. Anche lui aveva chiesto al Papa di approvare la sua scelta di vita perché voleva essere nella Chiesa, desiderava che essa, come una madre, confermasse la sua interpretazione della volontà di Dio e lo abbracciasse come un figlio.

Ed è nell’essere Chiesa che la prospettiva si spalanca: da noi tutti attendono. Non è un peso, ma un trampolino di lancio. Solide degli strumenti che la madre ha donato loro, le suore possono vivere a pieno nella Chiesa, vivendo e sperimentando la bellezza di essere figlie (nella relazione con i superiori) e al tempo stesso madri (con coloro che sono loro affidati).

Tutte poi non dimenticate mai di pregare per il Romano Pontefice, Vicario di Gesù Cristo, per il nostro Vescovo, per i Protettori dell’Ordine, per il nostro Padre Generale, per il Direttore e Confessore e per me vostra indegnissima madre viva o morta ch’io sia. Vi prego in ultimo di fare una Comunione secondo la mia intenzione, e a tutte prego la benedizione del cielo.

Eccoci alla chiusura della lettera, una chiusura che ci può sembrare, questa sì, scontata, con un gusto di altri tempi. Ma madre Chiara non è mai scontata. Nella preghiera per la Chiesa e nell’affidare la preghiera per lei nella Chiesa, rinforza e conferma quanto abbiamo appena visto e ci mostra il suo volto non solo di madre, ma anche di figlia che riconosce la maternità della Chiesa e a lei si affida fiduciosa.

La lettera circolare #6

Di un quinto dovere sentomi il desiderio di parlarvi ancora, che è il distacco del mondo e dei parenti. Mie amate figlie, ora non siete più del mondo, ma di Dio […]

Solitudine e distacco dal mondoContinuiamo a leggere la lettera circolare ed arriviamo al quinto dovere: il distacco dal mondo. Questo paragrafo può sembrare duro alle nostre orecchie ed è forse quello che sembra più risentire dell’influenza del tempo in cui madre Chiara lo scrive.

Scorrendo le poche righe che lo compongono infatti sembra di leggere i consigli indirizzati a un monastero di clausura piuttosto che a un istituto la cui vita, per varie ragioni, ha molti contatti con il mondo.

Il vostro cuore, la vostra mente non deve pensare, non amare il mondo, ma essere rivolta a Dio. I vostri occhi più non guardino cose di mondo; le vostre orecchie non più sentano voci del mondo; la vostra lingua non più parli di cose terrene, ma di cose spirituali e Divine […] Non vi affezionate alle persone […] siano preti o secolari.

Cosa ci può dire oggi questo invito a non affezionarsi alle persone, a non lasciarsi coinvolgere dalle cose del mondo?

Forse più di quanto non sembri a una prima veloce lettura.

Ciò di cui parla madre Chiara è un’esperienza che da sempre viene offerta a quanti credono in Dio e che può avere diverse declinazioni.

L’esperienza del deserto che accomuna tanti personaggi dell’Antico Testamento ne è un esempio. Nella Bibbia il deserto è il luogo in cui avviene l’incontro con Dio, il luogo che spogliando l’uomo del superfluo lo mette in contatto con il divino e lo aiuta a entrare in dialogo.

Non ne facciamo esperienza anche noi quando, lasciando momentaneamente la nostra frenetica quotidianità, ci prendiamo del tempo per pregare e per nutrire il nostro rapporto con Dio?

L’esortazione di madre Chiara e i suoi consigli mirano esattamente a quello: abituare il nostro cuore e la nostra mente al dialogo con Dio e all’abbandono a Lui.

Chiara Corbella PetrilloL’errore nel quale spesso si cade è pensare che questa condizione sia data solo ai consacrati, ma non è così. Un esempio di questa attitudine è proprio una laica, moglie, mamma e serva di Dio: Chiara Corbella. Chiara Corbella è l’esempio di come si possa vivere nel mondo senza essere del mondo: vivere amando profondamente il proprio marito e i propri figli sapendo che non le appartenevano, accettando la volontà e il disegno di Dio sulla sua vita, certa dell’amore del Padre. Chiara diventa, grazie a questo amore, portatrice di speranza per tutti coloro che la incontrano e che ascoltano la sua storia. Una donna che, nel suo cammino di fede, ha imparato ad amare come Gesù, libera da legami e costrizioni.

Se starai amando veramente te ne accorgerai dal fatto che nulla ti appartiene veramente perché tutto è un dono.

Chiara Corbella Petrillo

La lettera circolare #5

In ultimo vi ho da parlare della carità scambievole

Il quarto dovere che madre Chiara indica alle sue figlie (e che vedremo essere il penultimo e non l’ultimo) è la carità scambievole.

Madre Chiara non si dilunga in molte parole riguardo a questo punto che è forse il più sintetico di tutta la lettera circolare, ma non per questo meno importante. Lei stessa lo specifica dicendo che la carità è la maggiore, la principale, la regina di tutte le virtù.

E come sempre va dritta al punto:

Niente vale l’abito che portiamo, niente l’orazione, niente la meditazione, niente i digiuni, la povertà, la castità ecc. se non abbiamo la carità fraterna.

RelazioniL’analogia con l’inno alla carità di san Paolo, contenuto nella prima lettera ai Corinzi, inizialmente ci può far passare velocemente su queste parole come se esse fossero una semplice declinazione di quel brano biblico, un avvertimento scontato. Ma rileggendole salta agli occhi tutto il loro peso. Madre Chiara sta dicendo alle sue figlie che, se non sono nutrono la loro vita di carità, questa non vale nulla. Non vale nulla avere deciso di consacrarsi (l’abito che portiamo), non vale nulla tutto ciò che scandisce la loro quotidianità (l’orazione, la meditazione, i digiuni), non valgono nulla nemmeno i voti (la povertà, la castità).

Per le suore, così come per noi, il rischio è quello di dare tutto per scontato, sia le cose belle che quelle brutte. Imporsi una certa routine quotidiana (dettata da necessità come il lavoro e lo studio) e cercare di fare le cose senza preoccuparsi troppo del come le facciamo, con quale spirito e soprattutto con quale attenzione nei confronti delle persone che ci circondano (colleghi, familiari, amici).

Per questo è importante, credo, l’aggettivo che madre Chiara affianca a carità: scambievole. Un aggettivo relazionale perché è nelle relazioni che si esprime la carità.

E infatti, i consigli che seguono e che indicano la strada per vivere la carità fanno tutti riferimento alle relazioni.

In che cosa consiste questa carità? Nell’amarsi l’una con l’altra, nel compatirsi, nell’aiutarsi, nel pazientarsi, nel soffrirsi, e nello scusare la sorella quando mancò. Consiste nell’astenersi dalla mormorazione, e dal dir male l’una dell’altra, correggere modestamente, benignamente, prudentemente quelle che mancano. Consiste nel volervi bene, desiderarvi del bene, e pensare sempre bene delle vostre sorelle.

Queste righe fanno trasparire tutto la dolcezza materna di una madre che sa quanto le relazioni possano essere difficili e quanto il nostro cuore tenda a spazientirsi soprattutto con chi ci è più vicino, con le persone con cui passiamo più tempo. E come una madre indica i piccoli passi possibili perché le relazioni siano nutrite dall’amore e la nostra vita sia piena.

E noi? Come la viviamo la nostra vita? Come viviamo le relazioni?

La lettera circolare #4

Viene ora da intrattenerci un poco sul buon esempio. Il buon esempio lo vogliono le nostre sorelle, e lo vuole il mondo da noi

Veniamo quindi al terzo dovere: il buon esempio. Come sempre madre Chiara va dritta al punto: il buon esempio gli altri lo vogliono. Se lo aspettano.

Il buon esempio è sempre voluto, preteso. Lo chiede la mamma al maggiore dei suoi figli, lo chiedono gli insegnanti agli alunni più bravi. Dare il buon esempio. Il pensiero che forse associamo a questa frase potrebbe essere: perché devo darlo io il buon esempio? Per una volta non possono darlo gli altri?

Eh già. Il buon esempio sa sempre di predica. Ma forse sa di predica anche il modo in cui noi intendiamo “dare il buon esempio”. Spesso crediamo che dare il buon esempio significhi agire in modo costruito e controllato, ubbidire in modo forzato a ciò che gli altri si aspettano che noi facciamo. Insomma, dare il buon esempio vuol dire non essere se stessi.

Le parole di madre Chiara potrebbero essere interpretate così. Dopotutto lei parla di buon esempio nel parlare, nel camminare, nel procedere. Chiede alle figlie di dare il buon esempio in tutte le relazioni che vivono. Davvero pretende questo da noi?

Ma cosa intenda davvero madre Chiara con “buon esempio” si capisce dall’esempio che lei riporta subito dopo.

Il nostro P. S. Francesco un giorno, andando per la città di Assisi, con gli occhi bassi, mani composte, passo aggiustato, modesto contegno, disse che Egli credeva di aver fatto una predica fruttuosa.

AiutarsiL’episodio al quale fa riferimento madre Chiara narra di come san Francesco, uscito per predicare con un altro frate, girasse per la città sorridendo e salutando le persone che incontrava, accarezzando i malati, pregando in silenzio per quanti erano al lavoro; la sera, mentre rientravano in convento, il frate gli chiese che fine avesse fatto la loro predica e san Francesco rispose sorridendo che in realtà avevano predicato tutto il giorno.

San Francesco aveva dato il buon esempio semplicemente essendo se stesso e rivolgendosi agli altri con amore e carità. La gioia, la carità e la misericordia che sentiva di aver ricevuto dal Signore l’aveva a sua volta donata a quanti aveva incontrato quel giorno. È questo il segreto.

Il buon esempio è ciò che traspare all’esterno dell’annuncio che abbiamo ricevuto. Una vita è davvero virtuosa, santa e perfetta solo se ci viene naturale dare il buon esempio. Solo così questo non sarà più una “predica”, ma sarà il modo in cui annunceremo a nostra volta quanto abbiamo ricevuto.

La lettera circolare #3

Passiamo ora al dovere di Povertà

Continuiamo a leggere la lettera circolare che Madre Chiara Ricci indirizza alle sue amate figlie e vediamo insieme il secondo dovere: la povertà.

Beh, è abbastanza ovvio che la fondatrice di un ordine francescano richiami al dovere della povertà. Dopotutto anche lei stessa ricorda come questa virtù sia propria del carisma di san Francesco che la chiamò sua sposa.

Ecco, forse il termine virtù, associato a povertà, ci destabilizza un po’; soprattutto mette in crisi una parte di noi. Perché dovremmo chiamare virtù una cosa brutta? La povertà non è una cosa né piacevole, né bella. Gli stessi telegiornali ce lo ricordano quando riportano i dati relativi a quanti, nel nostro Paese o nel mondo, vivono “sotto la soglia di povertà”. Quando sentiamo la parola povertà la prima immagine che ci viene in mente, probabilmente, è una persona che vive in strada e chiede l’elemosina o un bambino africano denutrito: situazioni che sicuramente non vorremmo trovarci a vivere. Oggi poi ci sono tante povertà che fanno paura: non solo quella economica, ma quella digitale, quella sanitaria. La povertà indica sempre una mancanza, un handicap.

Cosa posso quindi guadagnare dalla povertà?

Madre Chiara non è un’idealista e sa bene quanto la povertà possa essere faticosa: lei stessa infatti la chiama “questa tanto disprezzata virtù”. È come se dicesse: “care figlie, so bene quanto la povertà possa apparire antipatica, ma – credetemi – essa è una virtù”. E come una madre le prende per mano mostrando loro piccoli passi possibili per abbracciare la povertà nel quotidiano: dà consigli riguardo ai vestiti, alle stanze, alle scarpe, al bere e al mangiare; mostra innanzitutto, con cuore di madre, che sposare la povertà è possibile. Questo forse sarebbe già abbastanza ma madre Chiara non si accontenta di un’adesione superficiale: vuole che le sue figlie, grazie alla povertà, facciano un percorso.

… questo buon Dio fin ora non ci ha riguardate con occhio di misericordia, non ci ha sempre provviste?

Solo chi è povero può davvero rendersi conto che non gli manca nulla e far fiorire nel suo cuore la gratitudine. La povertà è la virtù che sa rendere il cuore grato, riconoscente per tutto ciò che concerne i nostri bisogni materiali (che sono fondamentali tanto quanto quelli spirituali e affettivi).

La povertà quindi da dovere (parola sempre un po’ indigesta) diventa strumento che – paradossalmente – rende più ricca la nostra vita perché ci aiuta a gustare tutto il bene che Dio ha per noi a partire dalle cose più piccole. La povertà ci aiuta a fare spazio intorno e dentro di noi per renderci capaci di ascoltare, per non farci assumere atteggiamenti di superiorità che ci allontanano da Dio e dalle persone intorno a noi.

Ma come si vive la povertà? Noi forse non ci sentiamo chiamati a spogliarci come san Francesco di tutti i nostri beni. E va bene così. Perché la povertà sta innanzitutto nel nostro modo di rapportarci alle cose che possediamo, al modo in cui gestiamo ciò che abbiamo. Povertà è essere capaci di condividere con il desiderio di costruire un angolo di Regno di Dio sulla Terra, senza chiudere il nostro cuore nell’egoismo, capaci di ascoltare i bisogni di quanti camminano al nostro fianco certi che nulla di ciò che è necessario ci mancherà.

In questo tempo di Avvento, rivolgiamo lo sguardo al Presepe. Nella nostra tradizione ogni statuina porta tra le mani un dono per Gesù bambino: sono persone povere, che hanno ricevuto la notizia di una donna che (lontana da casa) ha partorito in una stalla; conoscono la povertà e subito avranno pensato a cosa – delle proprie poche cose – potevano condividere con questa famiglia nel bisogno. Forse saranno rimasti anche loro sorpresi rendendosi conto che, quella notte, il vero dono lo avevano ricevuto loro.

La lettera circolare #2

Nella lettera circolare indirizzata alle sue figlie e consorelle, madre Chiara Ricci richiama l’attenzione su cinque doveri attraverso i quali esse potranno ringraziare Dio per tutto il bene che dona loro. Il primo di essi è l’obbedienza

L’ubbidienza care sorelle per una religiosa è il tutto, perché è la base, il fondamento […]

Ubbidire. Un verbo un po’ scomodo. Lo colleghiamo a quando eravamo bambini, oppure a quelle situazioni, che oggi viviamo, in cui siamo costretti a fare ciò che gli altri ci dicono: ubbidire ai genitori, ai professori, sul lavoro. Quando ubbidisco significa che non sono libero e questo ci dà fastidio.

Cosa potrà mai dire questo verbo alla nostra vita? Partiamo dal suo significato: ubbidire deriva dal latino oboedire, derivato di audire (cioè ascoltare) al quale viene aggiunto il prefisso ob- che ha valore intensivo. Ubbidire quindi significa innanzitutto ascoltare. Ma chi devo ascoltare? Forse troppe persone vogliono impormi la loro volontà.

La fiducia in DioPer chi crede in Dio la prima obbedienza è quella alla volontà di Dio. E questo non è un semplice precetto teorico imposto dalla Chiesa perché per il cristiano ubbidire significa innanzi tutto seguire l’esempio di Gesù. Egli infatti è colui che in tutta la sua vita, e fino alla morte, ha sempre ubbidito alla volontà del Padre; in Gesù l’obbedienza non è un precetto, ma un evento.

Questa consapevolezza capovolge la prospettiva. Se io ho fiducia in Dio e credo che la sua Parola sia una Parola di bene per la mia vita allora ubbidire a Dio significa affidargli la mia vita e le mie decisioni perché io possa davvero sperimentare la bellezza del suo progetto su di me. Quando io decido di obbedire a Dio, Egli diventa “Signore”, colui che regge la mia vita e la indirizza. Ubbidire diventa un atto di fiducia.

La vostra ubbidienza sia pronta, esatta, semplice, allegra e pacifica

Gli aggettivi che madre Chiara lega al termine obbedienza fanno trasparire il desiderio di bene che lei ha nei confronti delle sue figlie spirituali. Un’obbedienza pronta, esatta, semplice, allegra e pacifica si esercita educando il cuore a ubbidire a Dio. E lei doveva saperlo bene. Come madre superiora sapeva che per saper comandare bisogna saper obbedire perché la vera fonte dell’autorità spirituale risiede nell’obbedienza a Dio. La sua vita è immagine di questo: l’attenzione che aveva nei confronti delle persone (sia le consorelle che le alunne dei vari istituti) e il desiderio di bene per la vita dell’altro fanno trasparire come madre Chiara radicasse le sue decisioni in Dio e nella preghiera trovasse la guida per ogni sua decisione.

E allora forse, questo verbo – ubbidire – può dire qualcosa anche alla nostra vita e diventa il primo dono che madre Chiara consegna nelle nostre mani.